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domenica 14 aprile 2013

Gabbiani dei Misteri ha cambiato casa!

"Gabbiani dei Misteri" ha cambiato casa. Il nuovo sito, che riguarda, tutti insieme, "Gabbiani delle Stelle", "Gabbiani dei Misteri", il Fan-club, foto, libri e tantissime altre notizie sulle mie attività, è raggiungibile cliccando qui  Il sito è al momento in costruzione, ma è già possibile leggere tante notizie, articoli, informazioni, sarà arricchito da tantissimo altro materiale giorno per giorno, aggiungendo nuove immagini, grafica migliorata e una più ordinata catalogazione delle informazioni. Presto sarà anche possibile taggarvi, se lo desiderate, oltre a svariate altre novità. Troverete, per esempio, non solo TUTTI i miei articoli già pubblicati sul GdM, ma anche TUTTI i numeri della mia rubrica già pubblicati sulla stessa rivista: Inoltre, potrete leggere i miei pezzi scritti per Voyager Magazine e notizie e curiosità sul lavoro di redazione. Una volta completato il nuovo sito, questo sarà cancellato in modo da dirottare il traffico sul nuovo spazio.  


Massimo Valentini  

giovedì 4 aprile 2013

Voyager 2, civiltà aliene ed Esobiologia



Sono molti oggi gli studiosi che ritengono probabile l’esistenza di forme di vita diverse da quella terrestre sviluppatesi da qualche parte nell’Universo. Organismi magari semplici e affini in qualche misura ai microorganismi presenti sul nostro pianeta, ma pur sempre extraterrestri. I pareri diventato discordanti quando si mettono a confronto i fautori dell’esistenza di civiltà aliene altamente tecnologiche e chi invece pensa che siamo decisamente soli in questo grande ammasso di stelle, pianeti e galassie che concettualmente chiamiamo “cosmo”. L’esistenza di altre forme di vita più complesse e organizzate della nostra è un argomento che da tempo immemorabile ha visto filosofi, accademici e teologi confrontare le proprie posizioni, anche se la querelle è ben lontana dall’essere risolta. Coloro che studiano l’ufologia e che danno a questi eventi, numerosissimi, una spiegazione extraterrestre (ricordiamo che il termine UFO designa, in realtà, un qualsiasi oggetto o fenomeno, anche terrestre, che non sia stato identificato con certezza) hanno superato il problema di porsi la domanda su come siano organizzate le civiltà aliene e su quali basi biologiche il loro corpo potrebbe essere basato. Ha destato un certo scalpore la recente dichiarazione del famoso astrofisico Stephen Hawking che ha ventilato l’ipotesi che civiltà aliene più progredite possano rivelarsi aggressive nei nostri confronti invitando i governi ad evitare qualsiasi tentativo di contattarle. E’ anche possibile, naturalmente, che siano altre civiltà a fare il primo passo ed è quello che potrebbe essere successo il 22 aprile 2010 quando la sonda Voyager 2, lanciata dalla Nasa nel 1977 e ancora in funzione dopo oltre trent’anni di attività (la sonda ha visitato Giove, Saturno, Urano e Nettuno e l’11 dicembre 2007 ha superato il cosiddetto “terminal shock”, una zona di spazio superata la quale il campo magnetico del Sole cessa di avere un qualsiasi tipo di influenza) ha cominciato a trasmettere sulla Terra dati assolutamente incomprensibili. C’è chi ha interpretato questo strano fatto come un deliberato atto di una qualche civiltà extraterrestre. Hartwig Hausdorf  (autore del libro “UFOs – They Are Still Flying”) ha infatti dichiarato: sembra quasi come se qualcuno avesse dirottato o riprogrammato la sonda, forse così non conosceremo ancora tutta la verità. Un’idea intrigante, peraltro smentita dalla Nasa con un laconico comunicato nel quale si legge che la sonda: “…ha solo avuto un problema nella formattazione dei dati prima di inviare i successivi, per cui non sono stati trasmessi in modo uniforme.” 1 Ma a prescindere dal fatto che la sonda sia stata intercettata da una civiltà aliena o meno ciò che è affascinante è che essa, similmente alla sua gemella (Voyager 1, anch’essa ancora in funzione) reca a bordo un disco d’oro su cui sono stati incisi musica e saluti in 55 lingue. Questo, proprio nel caso in cui una eventuale civiltà extraterrestre la ritrovi. Ma il problema di come potrebbero essersi evolute creature aliene rimane e una parziale risposta potrebbe trovarsi nell’Esobiologia (o Xenobiologia) una branca scientifica speculativa il cui nome deriva dall’unione tra il termine greco esos (esterno) o “xenos” (straniero) con il sostantivo biologia. Le sue origini affondano negli anni cinquanta grazie al biologo Joshua Lederberg in preparazione dello storico, primo sbarco dell’uomo sulla Luna. 

Joshua Lederberg
Ledeberg infatti suggerì apposite procedure per decontaminare i veicoli spaziali di rientro nell’atmosfera terrestre da possibili batteri “lunari” sconosciuti potenzialmente in grado di scatenare epidemie che avrebbero potuto rendere del tutto inermi le forme di vita terrestri. Questa ipotesi fu subito smentita (la Luna non possiede alcuna forma di vita “indigena”) ma il concetto che nello spazio potrebbero esistere forme di vita rimase. Scopo dell’esobiologia è l’indagine, portata avanti basandosi sull’evoluzione della vita terrestre, volta ad ipotizzare quali potrebbero essere i principi biologici alla base di organismi sviluppatisi su altri pianeti. La sua ricerca, dunque, è limitata a forme vitali basate sul carbonio (come la nostra) ma non per questo è meno affascinante. Gli esobiologi prendono molto sul serio i possibili microorganismi su altri pianeti ma non trascurano neanche la possibilità di forme di vita più intelligenti. A questo proposito Frank Drake, celeberrimo astronomo americano, sviluppò nel 1961 l’equazione che da allora porta il suo nome. Semplificata al massimo, essa ci dice che il numero di civiltà extraterrestri potenzialmente esistenti nell’Universo è in funzione del prodotto di una serie di fattori. Tuttavia le incertezze nei termini dell’equazione rendono impossibile predire se la vita sia un evento raro o meno, perché le probabilità che esistano pianeti abitabili vengono determinate sulla base delle proporzioni osservate. Certamente, l’Universo appare sconfinato e già oggi stiamo scoprendo nuovi pianeti orbitanti intorno a sistemi stellari lontani dal nostro. I fautori di chi immagina il cosmo pieno di vita (sia essa formata da semplici batteri o civiltà tecnologiche) hanno ragione almeno quanto chi sostiene il contrario (che cioè la vita sulla Terra sia il risultato di un fatto più unico che raro). Ecco perché la scoperta anche di un solo batterio non terrestre avrebbe ripercussioni importantissime perché se trovassimo anche un semplice insetto su un altro pianeta, sarebbe la prova evidente che la vita non esiste solo qui da noi. Tale assioma, però, non significa automaticamente che la vita extraterrestre debba anche essere intelligente o superiore alla nostra, perché al momento non abbiamo evidenze scientifiche a sostegno dell'esistenza di forme di vita in grado di comunicare con noi. Una cosa però la sappiamo: esiste un tipo di vita terrestre che può tranquillamente sopravvivere anche nel vuoto degli spazi cosmici e sono proprio le spore batteriche. Nel corso degli anni i ricercatori di tutto il mondo hanno cercato di stabilire se spore e batteri terrestri potessero rimanere ancora vitali se esposti al vuoto dello spazio cosmico, ovvero all’ambiente più deleterio che si conosca. Per esempio, gli scienziati del German Institute for Aerospace Medicine hanno usato un apposito apparecchio della Nasa per verificare cosa accede alle spore di Bacillus Subtilis nello spazio. Una serie di filtri permetteva di saggiare sui campioni raggi ultravioletti e solari oltre ai raggi cosmici. L’esperimento stabilì che il 2% dei batteri erano ancora vivi.2 Ricercatori giapponesi hanno invece condotto un esperimento per simulare l’esposizione allo spazio per 250 anni dello stesso microorganismo. Le spore di Bacillus Subtilis, in questo caso, sono state sigillate in una camera sotto vuoto, bombardate con protoni ad alta energia e portate a -196° C. Metà dei campioni è sopravvissuto.3 Simili studi dimostrano senza ombra di dubbio che i batteri possono sopravvivere nel vuoto spaziale ma dimostrano anche un concetto fondamentale: che cioè la vita sembra assai complicata da debellare e potrebbe benissimo essersi formata anche su altri pianeti. Ma dove? A parte Marte, oggetto del desiderio di moltissimi scrittori di Fantascienza (e scienziati) quale potrebbe essere un possibile candidato per ospitare vita basata sul carbonio? Se limitiamo la nostra indagine al nostro sistema solare scopriremo che uno dei più probabili candidati è un satellite di Giove, Europa, che nel 1997 è stato raggiunto dalla sonda europea “Galileo”. Le prime immagini che la navicella inviò al centro di controllo della Nasa resero euforici gli scienziati. “Galileo” aveva scoperto il primo oceano extraterrestre della storia umana. Sappiamo che Europa è ricoperta di ghiaccio e tra quel ghiaccio la sonda rilevò la presenza di Iceberg. Ora, iceberg equivale ad acqua liquida e quindi la crosta ghiacciata di Europa sembrerebbe scivolare letteralmente su uno strato di acqua.4 Richard Terrile, scienziato all’epoca impegnato nel programma alla Nasa, dichiarò quanto segue alla stampa: “Se mettete insieme acqua più composti organici sulla Terra equivale alla vita.”5 Allo stato attuale non sappiamo se davvero Europa ospiti forme vitali simili a pesci sotto quel ghiaccio, ma certo è che possiede dell’acqua e, forse, non soltanto colonie batteriche ma organismi più complessi. Ma possono esistere anche forme di vita dotate di intelligenza, tecnologicamente avanzate, e magari in grado di comunicare con noi? Si tratta di una visione suggestiva che però raccoglie tanto possibilisti quanto scettici. Nel 1964 il biologo George Simpson ha scritto un articolo in cui evidenziava la futilità della ricerca volta a trovare civiltà extraterrestri liquidandola come “una delle più improbabili scommesse della storia. L’idea che alcuni mondi ospitino necessariamente, secondo alcuni astronomi e biochimici, forme di vita umanoidi è chiaramente falsa.”6 In un dibattito con Carl Sagan il biologo Ernst Mayr ha proseguito sulla stessa argomentazione affermando che: “Sulla Terra, tra i milioni di linee di discendenza solo una ha portato alla nostra intelligenza e tanto basta per convincermi che la vita nell’universo, oltre quella terrestre, è assolutamente improbabile.”Ma se nell’Universo fosse insita una certa “predisposizione” alla vita (e all’intelligenza) su quali composti chimici potrebbe essere basata? L’Esobiologia ha avanzato diversi composti alternativi al carbonio, che potrebbero funzionare per costruire macromolecole biologiche anche se il carbonio rimane di gran lunga il “materiale” più comune negli spazi interstellari. (Infatti, tra le varie molecole identificate nello spazio interstellare 84 sono basate sul carbonio e pochissime su sostanze diverse quali, ad esempio, il silicio). Silicio o composti contenenti silicio, Ammoniaca e Fosforo sarebbero i candidati più probabili. Simili idee non sono affatto campate in aria come si potrebbe pensare. Sulla Terra, ad esempio, le diatomee, i radiolari e le spugne silicee formano i loro scheletri con diossido di silicio. Il fosforo, in forma elementale, è poi molto più reattivo del carbonio. Se diamo un’occhiata alla nostra atmosfera scopriremo che è composta per quasi l’80% da azoto, un gas inerte e dispendioso energeticamente per il suo fissaggio, ma che potrebbe servire da elemento base per un’atmosfera basata sul diossido d’azoto. In una pianeta del genere esisterebbero organismi simili a vegetali che potrebbero assorbire diossido d’azoto dall'atmosfera e fosforo dal terreno, mentre i loro scarti sarebbero a base di ossigeno. A questo punto altre forme di vita consumerebbero tali “piante” e userebbero l’ossigeno atmosferico espirando diossido d’azoto e depositando fosforo come rifiuto solido.8 L’ammoniaca, invece, potrebbe essere ossidata da specifici organismi che rilascerebbero idrogeno come elemento di scarto. Essi verrebbero poi predati da altre creature che respirerebbero idrogeno. Una vita fondata sull’ammoniaca potrebbe essere adatta a pianeti orbitanti al di fuori della “zona di abitabilità” basata sui composti dell’acqua. Anche gli idrocarburi, come i mari di metano ed etano che potrebbero essere presenti sulla superficie di Titano, potrebbero agire come solventi per complesse reazioni chimiche legate a una vita del tutto diversa da come noi la conosciamo. Come si vede i composti “alternativi” per far nascere forme vitali differenti da quella terrestre sono teoricamente già disponibili qui, sulla Terra, e non è detto che in condizioni ambientali proprie di pianeti diversi, orbitanti in altri sistemi solari, non siano una realtà. Impossibile poter ipotizzare la loro forma, ma si tratta di possibilità affatto teoriche. Forse un giorno la tecnologia di cui disporremo ci consentirà di verificare tali teorie o di scoprire qualcosa di ancora diverso. Ciò che è indubbio è che l’esobiologia, il progetto Seti, e la ricerca in generale di vita nel cosmo sono il banco di prova di una visione dell’Universo che si oppone a un'altra, quella degli scettici. Da un lato c’è la parte della scienza più nichilista, quella che crede in un universo sostanzialmente sottoabitato dove noi siamo gli unici esseri intelligenti. Ma dall’altra c’è un visione cosmica, forse più romantica ma non per questo irrealistica. La visione di un universo in cui esiste un messaggio fondamentale: produrre la vita. Un universo, cioè, in cui l’emergere di esseri pensanti, non importa se più o meno avanzati di noi, è parte integrante dell’ordine delle cose. Un universo in cui non siamo affatto soli.  

Massimo Valentini

  

domenica 24 marzo 2013

Il Detective della Scienza - Terza puntata





La sfida dei nanobots

La continua ricerca di procedure e strumenti sempre meno invasivi per l’esplorazione e la cura del corpo umano è uno dei settori sui quali è attiva la sperimentazione di microsonde capaci di spostarsi per i vasi sanguigni a mo’ di autostrade per viaggiare attraverso gli organi del corpo. Chiamati nano robots o più semplicemente nanobots, sono manufatti artificiali più piccoli e sottili di un capello umano, microscopici congegni che, almeno in teoria, potrebbero rivelarsi la nuova frontiera per tutta una serie di applicazioni se e quando la tecnologia si rivelerà capace di costruirli a costi competitivi. Macchine di questo genere sarebbero azionate da motori elettrici dalle dimensioni lillipuziane. Di recente Joseph Wang, Aysegul Uygun e Wei Gao dell’Università della California hanno realizzato un microscopico razzo - sonda capace di spostarsi a una velocità di circa 1100 micron usando come combustibile microscopiche bolle di idrogeno. Non si deve pensare a questo congegno come a un razzo dalle dimensioni microscopiche, con tanto di alette e ugello, perché il motivo per cui è chiamato razzo si deve al sistema di propulsione. Il suo aspetto è quello di un tubicino lungo dieci micrometri e largo dai due a quattro, con la superficie interna rivestita di un sottile strato di zinco. La scelta di questo metallo si deve al fatto che, se immerso in una soluzione acida , esso perde elettroni e causa la formazione di bolle di idrogeno che servono da combustibile . La loro espulsione determina il movimento della micro - sonda . Essendo cavi, questi congegni possono tranquillamente essere dotati di “testate” a base di farmaci da rilasciare esattamente là dove servono, minimizzando i possibili effetti collaterali. Si tratterebbe, insomma, di vere e proprie pillole intelligenti la cui guida, invece che affidata a circuiti e transistor come accade coi razzi “veri”, è svolta da speciali magneti. Il dottor Wang non è nuovo a questo genere di esperimenti avendo già realizzato nel corso del 2011 altri micro- razzi alimentati però ad acqua ossigenata. Benché questi congegni si siano dimostrati efficaci nell’intercettare e allontanare dai loro organi-bersaglio cellule cancerogene, presentavano comunque un rischio perché l’acqua ossigenata, così utile per la disinfezione di piccole lesioni, si dimostra tossica se immagazzinata in quantità biologicamente rilevante nei tessuti. Da qui l’esigenza di realizzare micro - razzi con una diversa forma di propulsione.

Pianeti rocciosi


Nuovi pianeti rocciosi

La sonda Corot lanciata per conto dell’agenzia spaziale francese (C.N.E.S.) dal cosmodromo di Baikonur (Russia) nel 2009, è una delle son de lanciate di recente con il fine di studiare e identificare nuovi pianeti extra solari. Il tasso di successi da essa conseguiti ha superato le aspettative degli scienziati , e ad oggi è considerata una delle sonde più fortunate a livello di scoperte effettuate. Tanto per cominciare, i suoi strumenti ad altissima risoluzione hanno scoperto il più piccolo pianeta extrasolare del momento, distante circa 500 anni luce da noi , chiamato Corot 7b in onore della sonda stessa. Il pianeta di tipo roccioso si trova nella costellazione dell ’Unicorno e presenta una densità media pari a 5,5 grammi per cm3, compatibile con quella terre s tre. Il diametro di Corot 7b è circa il doppio del nostro pianeta mentre la sua massa è per contro inferiore di un fattore venti . A causa dell’estrema vicinanza alla sua stella, un astro meno massiccio del nostro Sole distante da noi 456 anni luce, la superficie di Corot 7b è rovente, attestandosi sui 2000 gradi centigradi che scendono a 200 nel corso della notte. La sonda ha scoperto un altro pianeta nella stessa zona, stavolta denominato Corot-7c caratterizzato da un’orbita intorno alla propria stella pari a circa 3,7 giorni. La stessa navicella automatica ha poi scoperto un pianeta di tipo gioviano, vale a dire costituito in gran parte di materiale gassoso, Corot- 6b, tre volte più grande di Giove, in orbita intorno a una stella di tipo solare. Nel 2010 la stessa sonda ha scoperto un altro pianeta, Corot-9 b, anche questo un gigante gassoso. In questo caso, per determinare la massa dell’oggetto, risultata poi pari all’ottanta per cento di quella di Giove, è stato necessario l’ausilio di un’ altra sonda, il telescopio spaziale Spitzer. La serie fortunata di scoperte della sonda non finisce qui, perché nel corso dello stesso anno la sonda ha scoperto, nell’ordine, Corot-8 b, Corot-10 b, Corot-11 b, Corot-12 b, Corot-13 b e Corot-14 b, tutti pianeti gassosi. Infine, al 14 giugno del 2011, la stessa sonda ha scoperto un nu ovo carn et di ben 10 altri esopianeti : sette di questi – Corot-16 b,Corot-17 b, Corot-18 b, Corot-19 b, Corot-20 b, Corot-21 b e Corot-23 b – di ti po gassoso. Le scoperte non sono finite qui, perché gli astronomi hanno intenzione di far eseguire alla sonda nuove osservazioni presso altre regioni galattiche al fine di identificare quelli che, secondo i calcoli, potrebbero rivelarsi circa quattrocento nuovi pianeti ex trasolari. Tutte queste scoperte hanno un’importanza elevata per gli addetti ai lavori e confermano le buone qualità e la precisione degli strumenti a bordo della sonda i cui strumenti sono stati forniti da collaborazioni internazionali per conto dell’E.S.A., l’ Agenzia Spaziale Europea . Questi risultati fanno pensare che, nonostante l’abbondanza di pianeti gassosi che orbitano attorno ad altre stelle, anche quelli di tipo roccioso, più compatibili con la Terra, sono relativamente comuni: una scoperta che prospettive scientifiche in voga solo una ventina di anni fa avrebbero negato con decisione.


Avvistamento dello Yeti


Avvistato il famigerato Yeti?

Kemerovo è una regione siberiana che si trova a circa 3.500 km da Mosca, dove il comparto industriale lavora da sempre prodotti e materiali di origine chimica. La regione è però nota agli indigeni per un’ attrattiva completamente diversa: è infatti vista come l’habitat ideale dei mitici Mi- Goi, come li chiamano gli Sherpa , Yeti come invece li chiamano gli osservatori occidentali. Tut ti sanno che di tale misterioso ominide abbondano ricerche e filmati di qualità più o meno scarsa, spesso frutto di frodi , dubbi, errati avvistamenti o vere e propri e truffe. Truffe che invece non dovrebbero esistere nel caso in questione, almeno questa è la convinzione di Igor Burtsev, famoso esperto di Yeti, il quale si dichiara convinto dell’esistenza in questa zona della Siberia di una nutrita comunità di “abominevoli uomini delle nevi ” composta di almeno venti individui. A dire il vero l’idea di Burtsev non è proprio nu ova perché già nel 2009 fu organizzata una ricerca sulle tracce dello Yeti nel distretto di Tashtagol, guidata dallo zoologo Nikolai Skalov, docente della Kemerovo State University. Il luogo principe è stato la caverna di Azasskaya, una zona raggiungibile solo grazie all’uso di elicotteri e quindi del tutto isolata ed impossibile da raggiungere a piedi; lì i criptozoologi russi avrebbero ritrovato peli non identificabili con quelli di un qualsiasi altro mammifero, re s ti di attrezzi di legno e diverse impronte. Com’è noto, sia la Siberia che l’Himalaya sono da sempre i teatri di gran parte degli avvistamenti di Yeti e sono molti gli abitanti della zona che affermano di aver almeno visto, e in qualche caso perfino salvato dall’ annegamento, uno di questi esseri. Nel marzo del 2011 lo stesso Burtsev aveva raccolto le testimonianze oculari di almeno 14 osservatori che hanno indicato proprio la caverna di Azasskaya come luogo prediletto dello Yeti siberiano. Secondo lo scienziato, gli Yeti locali sarebbero alti circa due metri e caratterizzati da una folta pelliccia rossastra. Come già altri e più  noti primati, anche gli Yeti siberiani sarebbero capaci di arrampicarsi su gli alberi con notevole agilità ma, di contro, incapaci di nuotare: “Sono soliti costruire una sorta di «abitazione» usando come materiale rami, tronchi e fogliame” – ha detto il criptozologo russo – “o almeno così pensavamo all’inizio. Adesso, basandoci su nuove testimonianze, penso di poter essere sicuro che quelle costruzioni non siano una sorta di riparo contro il freddo ma punti di riferimento”. Storie di Yeti abbondano da sempre in Asia e fanno parte del folklore delle comunità dell’Himalaya , ma finora nessuno ha potuto vantare video o immagini affidabili di questi esseri sfuggenti. Tutto vero, quindi? La comunità dei cri ptozoologi locali ha avanzato alcune perplessità sulla notizia, facendo notare come la creazione in fretta e furia di un centro dedicato allo Yeti potrebbe sembrare, a occhi scettici , come uno specchietto per le allodole atto ad attrarre l’interesse dei turisti verso una località praticamente ignorata finora dagli agiati vacanzieri occidentali. L’atteggiamento della comunità cripto zoologica internazionale è quindi di cauta perplessità in attesa che da Kemerovo, prima o poi, arrivino tracce e campioni biologici che rivelino l’indiscutibile esistenza dello Yeti di Azasskaya.

Massimo Valentini

lunedì 11 marzo 2013

Il Detective della Scienza - Seconda puntata




Tre nuovi pianeti

Al momento sono diverse centinaia i pianeti extra solari scoperti in anni di osservazione astronomica anche se fino ad ora si sono rivelati esclusivamente giganti gassosi dalle dimensioni almeno due volte quelle della Terra , per non parlare di oggetti le cui dimensioni sono superiori a quelle di Giove, il gigante indiscusso del nostro Sistema Solare. Oggi, però, i fautori dell’esistenza di vita extra terrestre potranno gioire nel sapere che i ricercatori dell’Exoplanet Science Institute della NASA hanno scoperto i tre pianeti extra solari più piccoli in assoluto. I tre oggetti sono stati scoperti grazie all ’esame del database della missione Kepler che raccoglie oltre 150.000 stelle. Di queste, circa 3.000 sono nane rosse di classe M, proprio come la stella intorno alla quale orbitano i tre pianeti in questione. Battezzati con i poco fantasiosi nomi di KOI-961.01, KOI-961.02 e KOI-961.03, evidenti riferimenti alla loro stella, denominata appunto KOI- 961, guarda caso proprio una nana rossa di classe M. Le nane rosse sono stelle molto comuni nell’universo, ma difficilmente osservabili a causa della loro scarsa luminosità. I tre nuovi pianeti hanno dimensioni simili a quelle di Marte ed evidenziano orbite troppo vicine al loro sole per poter ospitare forme di vita simili a quella terrestre, essendo improbabile che possano ospitare acqua liquida. La loro temperatura superficiale varia dai 168 ai 440 gradi, per cui risultano francamente incompatibili anche con la presenza di ghiaccio, tuttavia la loro scoperta è rivoluzionaria perché evidenzia la possibilità che l’universo non ospiti solo sistemi planetari formati da giganti gassosi come Giove e Saturno, ma soprattutto corpi più piccoli di tipo roccioso: “Questa scoperta”, dice John Johnson, co – autore del team scientifico della NA S A, “indica chiaramente che sembrerebbe che una nana di classe M su tre possieda un sistema planetario fatto da pianeti rocciosi”. Si tratta di una scoperta importantissima nell’ambito dell’Astronomia perché evidenzia la possibilità che la sola Via Lattea possa ospitare in abbondanza sistemi planetari come quelli di KOI-961 e quindi moltiplicare la possibilità che tra i loro pianeti ne esistano alcuni dalle caratteristi che simili alla Terra. E se consideriamo che le nane rosse simili a KOI-961 pare rappresentino l’80% del totale di stelle della sola Via Lattea, la possibilità di scoprire un pianeta di tipo terrestre, cioè adatto a ospitare forme di vita intelligenti , si fa sempre più vicina. Cioè vuol dire che un giorno, invece di aspettare che eventuali alieni facciano il primo passo per contattarci, potremmo farlo proprio noi.

La pioggia di Kerala


La Pioggia di Kerala

Tra il 25 luglio e il 23 settembre del 2001 si verificò una curiosa pioggia nello stato indiano del Kerala. Le gocce di liquido erano prevalentemente di colore rosso ma i media locali riportarono la notizia di altre piogge verdi e nerastre, anche se la colorazione più comune era proprio quella scarlatta. Una pioggia ben strana, dal momento che si rivelò composta in realtà da particelle il cui diametro variava dai 4 ai 10 micrometri, dalla forma vagamente sferica e un centro schiacciato. Composte da carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno, silicio e tracce di elementi metallici, si sono dimostrate in grado di non essere danneggiate se esposte a raggi ultravioletti e a raggi gamma, ad elevate temperature e a diverse sostanze chimiche. I ricercatori hanno scoperto, in pratica, che si comportavano proprio come le spore terrestri, cioè gli organismi organici più robusti esistenti sulla Terra. Ogni millilitro di quella che la stampa locale battezzò Pioggia di Kerala presentava 9 milioni di quelle particelle rosse e secondo i calcoli svolti dagli esperti, in totale sarebbero caduti 500.000 kg di materiale. Dopo un’iniziale fase di scetticismo, la comunità scientifica parlò di sangue di mucca (?), licheni, contaminazione di piante e spore provenienti da alghe terrestri note come Trentepohlia . Solo due furono gli esperti che avanzarono un’idea del tutto diversa: che cioè la pioggia in questione fosse in realtà causata da cellule di origine extraterrestre probabilmente provenienti dall’ esplosione di un bolide (un frammento meteorico) che si era disintegrato nei cieli indiani. Godfrey Louis e Santosh Kumar, questi i loro nomi, furono ovviamente accusati di esagerazione quando non proprio di vera e propria mitomania. Ma oggi il dibattito sulla straordinaria pioggia scarlatta si riapre perché i due non si sono dati per vinti e hanno mostrato che le cellule in questione sono in grado di sopravvivere e prosperare dopo un periodo di ambientazione a 121 gradi centigradi, risultati coadiuvati dalla Cardiff e dalla Sheffield University. In queste condizioni le cellule misteriose sono in grado di riprodursi agevolmente, il che fa pensare che esse si moltiplicano grazie a variazioni a temperature ben determinate. Si tratta davvero di un fenomeno curioso perché come abbiamo già detto le uniche cellule terresti che possiamo usare come termini di paragone, le spore, possono sì sopravvivere a queste temperature, ma non si comportano affatto come le cellule di Kerala. Oltre a ciò, ed è forse il dettaglio più inquietante della faccenda, lo spettro luminoso di queste particelle presenta bizzarre affinità con la traccia della nebulosa nota come “Rettangolo Rosso”, il che porta nuova acqua al mulino dell’origine extraterrestre. Ed è adesso che le cose si fanno emozionanti, perché la possibilità che le particelle di Kerala siano spore aliene sarebbe una prova formidabile che la vita nell’universo sarebbe diffusa grazie alle comete e agli asteroidi secondo le regole della cosiddetta Panspermia, avanzata, ma mai provata, da diversi fisici teorici tra i quali il compianto Carl Sagan. Sulla questione non è detta l’ultima parola perché i fautori dello scetticismo a oltranza sono agguerriti, sostenendo che non è stata rilevata alcuna traccia di DNA in queste particelle, e che quindi non si possono definire veri e propri organismi viventi. Certamente, sono necessarie rigorose ricerche per escludere ogni possibile contaminazione da parte di fonti più terresti e meno aliene per avallare questa teoria, ma il dado è tratto e la Pioggia di Kerala è realmente un fenomeno più unico che raro. La conseguenza è che adesso sono molti i ricercatori che rivolgono le proprie attenzioni al fenomeno, segno che forse l’essere troppo scettici non aiuta più di tanto il progresso scientifico.


Eruzione del sistema solare del 14 gennaio


Nuove eruzioni solari

Sembra che il Sole si sia risvegliato dal suo periodo di “riposo” e che stia producendo eruzioni solari di una certa entità. Secondo Liam Fox, del Segretariato alla Difesa della Gran Bretagna, sarebbe maggio 2013 la data in cui potrebbero verificarsi eruzioni solari di straordinaria violenza, tali da causare serie noie ai sistemi di comunicazione del nostro pianeta e che potrebbe significare il bombardamento della Terra da parte di un numero elevato di protoni ad alta energia in grado di viaggiare a velocità dell’ordine di 6.4 milioni di chilometri l’ora. Tale fenomeno seguirebbe, ampliandole, eruzioni solari già verificatesi negli ultimi tempi a livello della regione solare numero 1402, al momento una delle più attive sulla superficie della stella, e debitamente segnalata dai responsabili dell’Amministrazione Nazionale Americana per gli Oceani e l’Atmosfera (NOAA) e della NASA, che si è subito affrettata a dichiarare che la cosa non produrrà conseguenze nefaste per gli astronauti a bordo della ISS, la Stazione Spaziale Internazionale. In effetti, le conseguenze più seri e l’avrebbero proprio i satelliti in orbita intorno alla Terra, i cui delicati strumenti non sono progettati per tollerare bombardamenti protonici di tale potenza che porterebbero al collasso delle comunicazioni, dei sistemi di ausilio alla navigazione (GPS), delle comunicazioni, dei rilevamenti meteo. Non sarà la fine del modo come quella teorizzata dalle teorie disfattiste basate sul calendario Maya, ma resta l’esigenza di correre subito ai ripari per ovviare al fenomeno fin d’ora , come del resto Fox ha già dichiarato.


Massimo Valentini

venerdì 1 febbraio 2013

Il Detective della Scienza - Prima puntata




Paura del virus

Chi ha visto il bel film Virus Letale (1995) interpretato tra gli altri da Dustin Hoffman e Morgan Freeman, ricorderà che la trama verte sulla lotta svolta da un paio di coraggiosi epidemiologi militari che intendono contrastare il rischio di un’epidemia letale scatenata da un virus creato in laboratorio a fini bellici. La notizia che stiamo per riportare ha diversi punti di contatto col film di Wolfgang Petersen, anche se per fortuna l’esperimento reale non ha causato alcun rischio di contaminazione nel mondo reale. La comunità scientifica internazionale è comunque in allarme perché in un laboratorio olandese è stato creato un virus dell’influenza con caratteristiche e virulenza tali da costituire un potenziale serio peri colo per buona parte della popolazione mondiale. Il virus dal quale è stato ricavato il nuovo organismo virale è noto con la sigla di H5N1 (è quello responsabile delle famosa Influenza Aviaria) e ha fornito le basi genetiche necessarie per la ricerca; fine del programma lo studio dell’altissima capacità di contagio e velocità di replicazione per contrastare efficacemente eventuali nuovi virus che dovessero sorgere in natura. La notizia è stata divulgata per la prima volta dal sito internet Science che non ha mancato di evidenziare come la comunità scientifica internazionale sia molto contrariata dalla pubblicazione dei risultati sul nuovo virus, mentre da altre parti sono stati avanzati seri dubbi sull’utilità dell’esperimento. Il fatto è che questo virus simboleggia paure concrete perché non si è mai sopito il timore che il relativamente comune virus dell’Aviaria possa mutare dando vita a una forma assai più virulenta e, quindi, letale: “Con ogni probabilità questo nuovo virus è il più aggressivo del mondo,” ha spiegato l’ideatore della ricerca, Ron Fouchier, che lavora presso l’Erasmus Medical Centre, “e studiarlo servirà a prevenire eventuali pandemie, non certo a causarle.” Fouchier ha inoltre aggiunto che il suo team ha svolto gli esperimenti usando come cavie da laboratorio alcuni esemplari di furetto, da sempre considerati gli organismi animali ideali per ricerche sui virus influenzali. Come specificato anche sulle pagine del quotidiano britannico Daily Mail, il nuovo virus è guardato con sospetto perché sarebbero sufficienti solo cinque mutazioni per renderlo praticamente invulnerabile. Da qui la paura che possa diffondersi per il mondo aggirando le pur formidabili barriere del centro di ricerca olandese. Ma Fouchier è ben determinato a pubblicare i risultati della sua ricerca invocando il diritto della libertà di stampa e sostenendo che non esiste alcun rischio, come invece avanzato da diversi ricercatori della comunità scientifica, timorosi che da queste informazioni potrebbero teoricamente avvantaggiarsi eventuali terroristi internazionali. Il centro di ricerca olandese è ben noto negli ambienti scientifici per la sua precisione e la sicurezza, ma molti osservatori fanno comunque notare che un programma del genere è attraente per eventuali esaltati, come ha con fermato anche un importante virologo del U.S. National Science Advisory Board for Biosecurity americano, Paul Keim, che ha evidenziato come il nuovo virus sia molto più pericoloso dell’antrace. La notizia ha scatenato un putiferio tra i fautori della libertà di stampa e coloro che invece vorrebbero un velo di prudenza sull’ argomento, che invocano sia etichettata come una questione di sicurezza nazionale e sanitaria. L’augurio che noi tutti ci facciamo è che il buon senso prevalga e che se anche fossero pubblicate le informazioni, il nuovo virus abbia i giorni contati.


Il più antico oroscopo

Un gruppo di archeologi ha terminato la ricostruzione della più antica tavola astrologica che si conosca in Europa, un oggetto scoperto in una grotta della Croazia nel 1999. La tavola in questione, composta di 30 pezzi d’avorio, reca incisi alcuni dei moderni segni zodiacali e risalirebbe a oltre 2200 anni fa. Il luogo del ritrovamento,una grotta chiamata Spila ( caverna, in croato) ha svelato il suo inatteso tesoro in modo del tutto casuale. Il primo scopritore del manufatto è stato una donna, moglie dell’archeologo Staso Forenbaher, dell’ Istituto di Ricerca Antropologica di Zagabria, che fu la prima a notare la nicchia nascosta dove era ospitato il reperto. Una vera e propria stanza dei segreti che ha consentito ai ricercatori di scoprire anche diverse coppe e una stalagmite di forma fallica. Nessuno, all’inizio, aveva idea di come ricomporre i pezzi d’avorio, il che ha reso necessari anni di paziente lavoro per comporre un puzzle archeologico che si è rivelato di grande importanza. Si pensa che la tavoletta esisterebbe da prima che l’astrologia babilonese iniziasse a diffondersi nel Mediterraneo e diventasse di conseguenza nota anche in Egitto: “ L’archeologia babilonese – ha detto il professor Alexander Jones, dell’Institute for the Study of the Ancient World – è diventata con molte trasformazioni l’astrologia greca che a sua volta è una versione più moderna dell’astrologia primitiva. La tavoletta ricostruita così pazientemente è espressione del sapere astrologico pre- moderno”. Essa serviva a mostrare la posizione del sole, della luna, dei pianeti e in quale punto dello zodiaco erano sorti o tramontati sull’orizzonte al momento della nascita di un nuovo individuo. Con ogni probabilità si tratta del più antico oroscopo scritto risalente al mondo greco- romano. Più complesso è capire dove la tavoletta sia stata realizzata. L’avorio potrebbe essere originario dell’Africa e arrivato sul suolo europeo percorrendo un tragitto che attraversava l’Adriatico fino al regno degli Illiri, un’antica popolazione di lingua indoeuropea . Secondo alcuni, un astrologo di una colonia greca in contatto con quell’antica civiltà potrebbe aver raggiunto la caverna per divinare il futuro di un capotribù,ma secondo il professor Jones questa teoria è la meno probabile a causa della difficoltà di calcolare la posizione dei pianeti, specialmente se si tenta di partire da una grotta. Più realistica, invece, sarebbe l’idea che la tavoletta possa essere stata parte di uno scambio di beni di valore e forse la coeva presenza di coppe in quella caverna potrebbe essere la prova di un’offerta votiva a qualche divinità. Questa ipotesi è corroborata dal fatto che le coppe sono tutte di origine straniera e potrebbero essere state acquisite con scambi a fine votivo. Anche la presenza della stalagmite modellata in forma fallica fa pensare a un rito di fertilità legato alla determinazione della posizione degli astri nel cielo.


Un volto “amico”

Per la Robotica uno dei campi più complessi è senza dubbio lo studio di sistemi in grado di azzerare o quantomeno di rendere più agevoli le interazioni tra uomo e macchina. Questo perché gli esseri umani hanno l’istintiva tendenza a diffidare di tutto ciò che è sintetico, complici forse anche i tanti film di fantascienza a sfondo orrorifico sfornati dall’industria cinematografica. Per affievolire questo distacco emotivo, un gruppo di ricercatori tedeschi dell’Institute for Cognitive Systems di Monaco, in collaborazione con tecnici giapponesi, ha realizzato Mask- Bot, una macchina in grado di imitare la mimica facciale umana. Mask – Bot ha la capacità di spalancare le palpebre, muovere sopracciglia, bocca, chinare la testa o ruotarla. Tutti questi movimenti sono coordinati con il parlato e variano a seconda della domanda fatta all’automa. La mimica facciale è una delle caratteristiche più tipiche degli esseri umani: è grazie ad essa che riusciamo a esprimere una vasta gamma di emozioni e a capire quelle degli altri. Rendere più efficace il riconoscimento delle emozioni umane permette di costruire macchine di facile uso per l’uomo che può relazionarsi con esse in modo molto più spontaneo e intuitivo. Complice la sempre più elevata aspettativa di vita del mondo occidentale, la figura robotica è destinata a diventare di uso comune per i decenni a venire e già adesso esistono robot, in Giappone, usati come guide museali, infermieri , limitate forme di assistenza agli anziani e ai disabili. Tornando a Mask-Bot, per ora è essenzialmente un semplice meccanismo fornito di schermo sul quale è riprodotto, con tecniche olografiche, un volto umano. Tuttavia il livello dei dettagli finemente riprodotti del viso è impressionante: il volto è visibile sullo schermo traslucido che costituisce la “maschera” del robot anche alla luce diurna, grazie a una particolare vernice che ne amplifica la riflessione cromatica. Siamo a un passo dalla Fantascienza: presto disporremo di fedeli assistenti robotici in grado di sostituirci nei compiti noiosi e ripetitivi interagendo con loro in modo istintivo ed efficace? I passi avanti dei gruppi di ricerca sparsi in tutto il mondo sono considerevoli, ed una cosa è certa: la tecnologia robotica potrebbe davvero rivelarsi una carta vincente per il futuro,ma ciò non deve far temere un mondo alla Blade Runner, il bellissimo film di Ridley Scott dove un “cacciatore di androidi” aveva il compito di distruggere macchine antropomorfe ribellatesi all’ uomo come novelli golem. Il confine tra scienza e fantascienza sembra oggi ormai essere diventato molto sfuggente.


Massimo Valentini